Edizioni Veronelli

Ottobre 2003

Italiani maestri olivicultori?

Edizioni Veronelli n° 73, Luca Panerai

Questa intervista a Roberto Scopo (nella foto), “il più grande oleologo d’Italia” (secondo il parere di un guru del settore come Luigi Veronelli) cerca di chiarire il presente e il futuro dell’olio in Italia.

Gli ultimi dati indicano che l’Italia quest’anno produrrà esattamente la metà dell’olio che aveva prodotto nel 2002. Anche la natura vuole infliggere una punizione a un settore che non sembra volersi impegnare fino in fondo nella ricerca della qualità assoluta?
Risposta. IL comparto dell’olio d’oliva sta vivendo un momento di grande confusione. Da una parte l’industria che massifica le caratteristiche e le peculiarità del settore olivicolo. Dall’altra parte gli olivicoltori, oltre un milione, che non riescono ad avere una giusta remunerazione della lavorazione e dalla vendita del prodotto. Se a questi problemi si aggiungono fattori climatici negativi, come siccità o gelate, il contadino non ha altra alternativa che vendere sotto costo all’industria.

D. L’Italia ha più di 500 tipicità, mentre la Spagna, che quest’anno produrrà una quantità d’olio pari a quattro volte quella italiana, ne ha solo 40. Perché questo paradosso? E cosa succederebbe se gli olivicoltori italiani scegliessero di dare al prodotto il nome della cultivar da cui proviene, privilegiando la diversificazione dei sapori?
R. Da alcuni decenni gli spagnoli hanno aggiornato i sistemi di coltivazione, meccanizzando la raccolta ed eliminando centinaia di cultivar, preferendo una grande quantità di prodotto riconoscibile in poche varietà. Secondariamente, l’Italia ha un milione di olivicoltori, di cui l’80% possiede pochi ettari, quasi tutti costretti a scegliere la via della vendita all’industria, per poter sopravvivere alle condizioni di mercato. Se gli olivicoltori italiani dessero al loro prodotto il nome della pianta, il consumatore italiano potrebbe riconoscere la provenienza del prodotto e godere di una maggiore scelta. Allora si che saremmo imbattibili rispetto a tutti i produttori della fascia mediterranea, con un patrimonio di oltre 500 cultivar. In altre parole, l’olio italiano vorrebbe dire olio di qualità. E l’Italia potrebbe essere leader in questa fascia di mercato, invece di soffrire della competizione spietata della Spagna.

D. Chef del calibro di Sadler, Marchesi e Vissani hanno suggerito provocatoriamente che per l’uso in cucina sarebbe meglio utilizzare l’olio di semi semi di girasole o di arachide al posto di quello d’oliva. Pensa che cambierebbero opinione se avessero a disposizione molte più varietà d’olio imbottigliato secondo principi di assoluta qualità?
R. Ogni chef deve percorrere la propria strada verso le cotture e i condimenti della cucina, ma scoprire centinaia di oli extravergine monocultivar diversi, identificabili con altrettante zone d’Italia sarebbe un’emozione unica. Capire che esistono oli monocultivar ognuno con caratteristiche diverse, adattissimi per soffriggere e cucinare, esaltandone le peculiarità di ogni piatto. Questo è il progetto che, se adottato dagli chef, farebbe da traino per tutti gli olivicoltori italiani, valorizzandone le differenze delle varie produzioni.

D. Una domanda secca: che sapore avrà l’olio italiano fra cinque anni?
R. Saranno sapori diversi, perché ogni singola monocultivar dal lago di Garda fino alla Sicilia, potrà dare uno suo gusto e un suo sapore. Sapori e gusti legati al territorio di provenienza unici al mondo. Come per il vino, quando da bianco e rosso, oltre 40 anni fa, si è cominciato a differenziarne il nome, chiamandolo col proprio vitigno: barbera, sangiovese, nero d’avola. Così i nostri olivicoltori potranno fare la differenza chiamando il loro prodotto col nome della monocultivar, casaliva, moraiolo, raja, coratina e via fino a centinaia di altre. Tutti questi prodotti, a disposizione delle sapienti mani dei nostri chef potrebbero fare la differenza e aumentare il peso qualitativo dell’olio italiano. (articolo tratto da Milano Finanza del 17 agosto 2003)