Rassegna Stampa

December 2000

Nelle mani delle multinazionali

da “Slow Ark” del 13 Dicembre 2000, Piero Sardo

Gino Veronelli lancia l’allarme.

Gino Veronelli, intervistato sulla situazione dell’olio italiano, si accalora.. si ha la netta sensazione che l’argomento lo coinvolga come a suo tempo –quando parlare e scrivere di vino non era ancora una moda dilagante- lo appassionava il mondo vitivinicolo
“La grande differenza tra vino e olio –dice- è che si mi danno un bicchiere di vino anonimo io riesco ad avvicinarmi all’origine di quel prodotto, alle sue caratteristiche. Con l’olio no. Mi limito a stabilire se è buono o se non buono, ma ancora oggi, dopo anni di assaggi e confronti, non mi è facile risalire alla cultivar e al territorio. Anche perché nessuno mi ha mai permesso di capire come si distingue l’olio di Taggiasca, di Moraiola, di Leccino. Invece i vignaioli l’equivalente sapere sui vitigni me lo hanno trasmesso”.
Ovviamente stiamo parlando di olio extravergine…
Certo, l’unico olio degno di questo nome. Ma attenzione: anche gran parte dell’olio venduto in Italia, non solo olio di oliva, nasce da aggiustamenti biochimici. Si compra l’olio lampante, lo si corregge fino a raggiungere i limiti chimici previsti dalla legge e lo si vende nei supermercati a prezzi ridicoli. Ormai tutti sanno che fare extravergine di qualità e in modo onesto costa all’origine otto euro. Come è possibile vendere bottiglie a 2 – 3 euro? Solo manipolandolo. Eppure si potrebbe far chiarezza, se si volesse. Presso il Ministero giacciono due proposte fatte da istituti molto seri, come l’Agrobios di Metaponto- che hanno messo a punto una procedura di analisi in grado di determinare l’origine del prodotto esaminato, se è extravergine vero o un derivato dal lampante. Ma nessuno ne fa cenno. Si preferisce tacere.

Un extravergine a 4 - 5.000 lire al litro non può essere autentico.
In Italia esistono sistemi scientifici per scoprirlo, ma giacciono nei cassetti del Ministero. Il mercato preferisce tacere.

Fare olio vuol dire raccogliere le olive senza danneggiarle e frangerle in fretta. Tutto il resto è artificio, manipolazione inutile.

Le Dop possono cambiare questo quadro allarmante?
Le Dop sono un buon ombrello protettivo, ma non bastano. Occorre che qualcuno certifichi la provenienza delle olive, anche all’interno della Dop. E mi pare che il sindaco sia l’autorità più indicata per garantire l’origine delle olive. Conosce il suo territorio, sa come lavorano le aziende, può verificare rapidamente se succede qualcosa di strano nel suo comune: e le nuove leggi costituzionali glie ne danno la facoltà. Bisogna favorire questo tipo di decentramento di poteri, arrivare alle denominazioni comunali. Ma le leggi, lo sappiamo non sono mai sufficienti, se il consumatore non è più attento e consapevole.
Assolutamente. Non si cambia un mercato così vasto e ricco come quello dell’olio senza un consumatore che sappia riconoscere la qualità e sia disposto a pagarla. Ma come è successo per il vino, prima bisogna fare pulizia, bisogna avere la certezza di quello che mangiamo. Poi vinceranno il gusto e l’eccellenza. In fondo fare olio è semplice, ce lo insegnano i padri latini: si raccoglie, si toglie il nocciolo,(èuna tecnica che potremmo riprendere, qualcuno ci ha già provato e può dare risultati importanti) e si frange in fretta.
Tutto quello che si fa in più è artificio, manipolazione inutile, anzi dannosa per la qualità. Ma io sono certo che succederà per l’olio quello che è già successo per il vino: ci vorranno tempo e molte battaglie, ma alla fine la qualità si imporrà!

Sansa, lampante, vergine, extravergine

Non è possibile parlare di olio di oliva tout court. Innanzitutto esiste la famiglia dei vergini: il vergine lampante, il vergine e l’extravergine. Tutti e tre si ottengono dai frutti dell’oliva esclusivamente con procedimenti meccanici e fisici, differenziandosi per parametri chimici (acidità libera e numero di perossidi) e l’extravergine soltanto per una valutazione organolettica a punteggio (voto minimo 6,5, definito da un panel di assaggiatori).
Al dettaglio possono essere commercializzati sia il vergine che l’extravergine, eppure non vi capiterà ami di incontrare il primo. C’è infatti interesse a miscelare le qualità inferiori con quella “miglioratrice” di qualità superiore, che stempera i difetti e riduce l’acidità libera fino a raggiungere i parametri minimi dell’extravergine (acidità massima 1%, soglia che scenderà per legge a 0,8) Facciamo un esempio: un litro di vergine con acidità 1,5 mescolato con un litro di extravergine con acidità 0,5, magicamente si trasforma in due litri di extravergine con acidità 1. Poi c’è la famiglia degli oli di oliva. In questo caso non basta più s spremere semplicemente i frutti. E’ necessario un procedimento industriale: si prende il vergine lampante (oli di questo genere si utilizzavano un tempo per alimentare le lampade) e lo si sottopone a radicali trattamenti chimico-fisici. Il lampante, di per sé difettoso e non commestibile, è deacidificato (neutralizzando l’acidità libera elevata) deodorizzato e decolorato. Insomma, è reso organoletticamente neutro: senza colore, sapore, odore Per essere messo in vendita, l’olio “raffinato” di oliva deve essere miscelato con percentuali di olio vergine in modo da riottenere un’identità. Infine, esistono li oli raffinati di sansa (residuo solido della lavorazione delle olive che contiene ancora un 5% di olio)che, per essere immessi sul mercato, si miscelano con una percentuale di vergine.